
Architetture del caso, labirinti del dubbio, misure del sogno. La ventina di opere che l'artista mantovano Luca Rossi presenta, al primo sguardo sembrano fondarsi su una geometria intesa come equilibrio, armonia, ordine. Ma basta poco per rendersi conto che la composizione è in realtà formata da un infinito accumulo di tracce, pieghe, sovrapposizioni. Il tutto dipende dal fatto che per l'artista un quadro non è mai veramente finito: egli lo prende, lo lascia, lo recupera, per aggiungervi sempre ulteriori segni, innesti, rinvii. Il suo obiettivo è quello di farne una struttura aperta: non più una semplice relazione con lo spazio, ma una presa di coscienza dello spazio stesso e della sua dimensione.
Non essendo un matematico né un filosofo, egli non tenta di dimostrare che la sua opera è un modello di bellezza, ma la interroga, la esamina come fosse un corpo vivo, palpitante. Così, alla fine, più che la struttura delle varie figure, conta seguire il procedimento di esecuzione, importa osservare la costruzione interna dell'opera, la sua ossatura, proprio come quella di un corpo umano o di un edificio: un'ossatura discreta, che a volte si fa persino dimenticare, ma che sostiene l'intera impalcatura del quadro. Del resto il lavoro di Luca Rossi si presenta come un lungo cammino che lascia intuire anche i primi passi o, meglio, come una pittura che lascia intravedere i propri fondali. Qui potrebbero funzionare le parole di Meister Eckhart: "In fiume eterno il colore in colore si perde", dove il fluire e il perdersi vogliono soprattutto alludere ad una condizione metafisica, trascendentale della visione. Uno spegnersi dei rossi nel nero o, viceversa, un emergere delle tenebre alla luce, sempre eliminando però ogni parvenza oggettiva e rendendo invisibili le cose del mondo.
ingresso libero