Composta di 285 opere e divisa in 5 ampie sezioni, la mostra, a cura di Marco Goldin, per la prima volta in Italia tratteggia l’importante vicenda della nascita del paesaggio impressionista. Facendolo però da un punto di vista molto più dilatato e così storicamente fondato. Infatti, la prima sezione indicherà, attraverso l’opera di Constable e Turner, le maggiori preesistenze in Europa, al di fuori della Francia, nei termini della più elevata qualità quanto a una nuova interpretazione del paesaggio.
Non è inutile ricordare, tra l’altro, come Constable e Turner siano stati fondamentali, il primo in modo particolare per gli artisti di Barbizon e il secondo specialmente per Monet. Questo capitolo introduttivo sarà già l’affondo dentro una natura descritta e interpretata in modo assai diverso rispetto al XVIII secolo. Con Constable seguendo le vie di un realismo che si tramuta in lume nuovo sulle cose, e con Turner lungo i sentieri di quella dissoluzione della natura nella luce e nel colore che conteranno così tanto appunto per Claude Monet.
La seconda sezione, intitolata Dall’Accademia ai primi sguardi sulla natura, intende illustrare l’evoluzione del paesaggio da fondale scenografico, luogo in cui accadono le storie della Mitologia e delle Sacre scritture, a genere in cui la natura, pur non assumendo mai quella rilevanza che, negli stessi anni, le era propria con l’opera di Constable e Turner, viene consapevolmente studiata dal vero da pittori come Granet, Constantin, Valenciennes e, naturalmente, Corot. Artisti tutti che, soprattutto nei loro soggiorni italiani, sembrano decisamente capovolgere il gusto della ricostruzione storica in favore di uno sguardo più limpido sulla natura, finalmente accarezzata e amata, percorsa da uno sguardo mai vuoto e inutile. Questa disposizione d’amore sarà il punto di partenza anche per i giovani pittori impressionisti quando, qualche decennio più tardi, si affacceranno sulla scena parigina.
Poi sarà l’impressionismo a guadagnare gradualmente
il
centro della scena. E,
naturalmente, volendo spiegare cosa abbia rappresentato, per quel gruppo
straordinario di pittori, il paesaggio, bisognerà partire da Barbizon. Nella
terza sezione infatti, intitolata Da
Barbizon al primo paesaggio impressionista, si avrà modo di misurare quale
fu la vera, incredibile novità introdotta da quei pittori, i cui esordi sono da
ricondurre ai primissimi anni trenta, riconosciuti come gli artefici di una
rottura che segna la fine dell’ascendente teorico ed estetico del paesaggio
classico. La natura non è più quella di un’Italia pittoresca e idealizzata, ma
quella di una Francia scoperta gradualmente.
Si inizia con l’esplorazione delle foreste attorno a Parigi, come Compiègne, Montmorency e Louveciennes. Ma il luogo che, più di altri, rinvigorì il paesaggio contemporaneo francese tra gli anni trenta e gli anni cinquanta, fu la foresta di Fontainebleau con le sue frazioni, Barbizon, Marlotte e Chailly. Corot, Français e Huet furono tra i primi a frequentare questi luoghi mitici, e vennero poi seguiti da Diaz de la Peña, Rousseau, Daubigny e Courbet, solo per dire degli artisti più celebri che hanno costituito un fondamentale ponte tra la pittura accademica di paesaggio in Francia e gli impressionisti. Ai loro esordi infatti Monet, Bazille, Sisley e Pissarro si ritrovano negli stessi anni a dipingere in questo luogo mitico, rielaborando la lezione dei maestri più anziani e sviluppando in particolare un’attenzione affatto nuova per il dato atmosferico e l’importanza della luce.
Intitolata Paesaggi dell’impressionismo, la quarta sezione abbraccia oltre 150 opere, dunque il cuore vero di tutta la mostra. Non più solo il paesaggio, ma i paesaggi. Un plurale che si rende necessario per raccontare la ricchezza e diversità di visione che a partire dai primi anni settanta, e fino agli albori del nuovo secolo, tanti pittori della generazione impressionista hanno saputo tradurre nelle loro opere. In quasi quarant’anni di
pittura, non solo matura e giunge a compimento il linguaggio impressionista più universalmente noto, ma di lì si evolvono in modo assolutamente perentorio singole figure di artisti che apportano ulteriori e più fecondi elementi di novità. Se al primo momento dunque possiamo associare i nomi, tra gli altri, di Sisley, Pissarro, Guillaumin e Caillebotte, i veri giganti di questa irripetibile stagione sono Manet prima di tutti, e poi Gauguin, Monet, van Gogh e Cézanne. Artisti il cui ruolo dominante è testimoniato in mostra da ampi gruppi di opere di qualità assoluta.
L’impressionismo non nasce con un manifesto programmatico stilato in un momento preciso da un maître à penser. E la prima esposizione, presso lo studio fotografico di Nadar nell’aprile del 1874, è solo il battesimo ufficiale di un movimento. I cui protagonisti in realtà si frequentavano già da diversi anni, stimolandosi a vicenda nella ricerca di un linguaggio diverso da quello proposto nei Salon, di un modo nuovo di guardare alla realtà e di farne esperienza. Questa sezione vuole dunque restituire il senso di tale confronto continuo che ha animato le esistenze degli impressionisti, del loro cimentarsi molto spesso su soggetti simili, nello stesso tempo o a distanza di anni, in perfetta solitudine o l’uno a fianco dell’altro. E sarà dunque anche inevitabile, e affascinante, verificare quanto l’apporto di un pittore sia leggibile nell’opera di un altro. Quanto cioè l’impressionismo sia sostanzialmente un riandare continuo, ciascuno con la propria sensibilità, alla natura, tutta, che ci circonda, per coglierne fin dove possibile la fuggevole bellezza. O per trasferirvi, è il caso emblematico di Monet, nel periodo ultimo di Giverny, il senso lacerato di una visione, e, per van Gogh, la corrispondenza con il suo più intimo sentire.
In una succedersi affascinante le opere saranno disposte per nuclei tematici. Dalle vedute di Parigi realizzate da molti tra gli impressionisti, Caillebotte in primis, al gruppo fondamentale centrato sulla campagna francese, dove tanti tra questi artisti danno il meglio di loro stessi. Quindi il tema dell’acqua, ovvero i fiumi di Francia, dalla Senna all’Oise, e poi i quadri dedicati al mare, da quelli celeberrimi di Manet, e dai molti che Monet vi dedicò soprattutto durante i soggiorni importanti in Normandia o in Costa Azzurra, fino all’esaltazione dell’accecante luce mediterranea nei quadri di Signac.
Sempre restando al tema delle città, un ruolo centrale, anche per i quadri dipinti fuori Parigi, l’avrà ancora Monet, con le immagini di Londra, di Amsterdam e di Venezia, e ancora della cattedrale di Rouen che vivrà in un magnifico raffronto con una superba versione della chiesa di Moret dipinta da Sisley. Questo capitolo della mostra includerà anche i viaggi che gli impressionisti fecero. Allora le visioni olandesi e inglesi di Monet si alterneranno a quelle provenzali di Cézanne, sublimi lungo tutto il corso della sua vita. Senza dimenticare la Bretagna, primo eden abitato da Gauguin e Bernard, e il mitico Sud cercato e dipinto da Van Gogh dopo la scoperta della pittura impressionista fatta a Parigi.
Talvolta gli impressionisti non dipingono neppure nella chiarità di un campo o sulla riva del fiume, ma si fermano alla brevità del giardino di casa. A Il giardino è intitolata infatti la quinta e ultima sezione dove sono presentati molti dei capolavori più alti di tutta la mostra. A cominciare per esempio da Un angolo del giardino a Rueil dipinto da Manet nel 1882, qualche mese prima della sua morte. La necessità che Manet conserva fino all’ultimo di dipingere en plein air è uno dei tratti comuni che lo legano ancora all’esperienza impressionista. Qui però la dimensione di dialogo intimo che egli rende avvertibile nella sua opera è un’assoluta novità. Quando infatti gli impressionisti dipingevano un giardino era per ambientarvi una scena di famiglia o per esaltare la propria abilità nel rendere i giochi di chiaroscuro che la luce creava con la vegetazione. È quanto si può vedere nel Parco a Yerres dipinto da Caillebotte. A una visione più aperta e meno scintillante di riverberi luminosi, si rifà Pissarro che a distanza di vent’anni l’una dall’altra dipinge due opere, gli Orti a L’Hermitage, Pontoise del 1874 e gli Alberi in fiore. La casa dell’artista a Éragny, in cui lo spazio del giardino è riletto come luogo di vita, dove l’uomo appare con le fatiche del lavoro quotidiano.
Per molti degli impressionisti il giardino continuerà a esser letto come il luogo della fioritura, della vita felice che nasce. Questo tipo di soggetto non poteva che affascinare van Gogh al suo arrivo a Arles, nella primavera del 1888. Il Frutteto stretto dai cipressi è infatti il tentativo felicemente riuscito di fermare sulla tela la bellezza effimera e gioiosa che la natura stava regalando ai suoi occhi. E anche se sono riconoscibili dei debiti nei confronti della cultura figurativa giapponese, è altrettanto evidente che, proprio in queste opere, van Gogh torna quasi istintivamente a riallacciarsi al più puro stile impressionista. Con la formulazione commovente di una pittura della luce e dello spazio che è tra gli esiti di più intima poesia leggibili nella sua opera.
Il tema del giardino è però forse quello che per eccellenza va ricondotto all’opera di Monet e al tempo ultimo della sua vita a Giverny. La mostra infatti si conclude, lontanissima da dove era partita, già ben dentro il XX secolo. Eppure, d’altro canto, vicina a certi quadri di Turner che, ancor prima della metà del secolo precedente, erano già dispersione dentro la tempesta del colore. Fosse essa di luce o neve.
Alcune visioni del giardino, dei glicini e delle ninfee di Monet, esposte nell’ultima sala della mostra, sigillano, nella decantazione della materia dipinta, un percorso fatto ormai di fiorite sottrazioni di luce. La natura è diventata il respiro del cosmo, la voce di un infinito nata dallo stagno incantato di Giverny.
Per informazioni
Linea d’ombra, tel. 0422.3095. Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
Data inizio: 15-09-2006
Data fine: 25-03-2007
Luogo: Museo di Santa Giulia
Indirizzo: Brescia