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7 febbraio - 21 marzo 2009

 

“Paesaggio è una parola sporca. Paesaggio è là dove finisce la natura”. Così diceva il grande fotografo americano Ansel Adams. Parole, le sue, che vogliono segnalare la trasformazione da un modo di vedere ad un altro, dall’utopia di un mondo puro, naturale alla necessità di costruire nuove storie su un paesaggio ormai totalmente sondato, conosciuto, consumato.

E gli artisti in mostra vanno proprio in cerca di nuove narrazioni e racconti, perché il problema non è più quello di riprodurre o di investigare gli estremi confini della nostra esperienza, ma quello più radicale di una sorta di loro rifondazione, della formazione di un nuovo alfabeto visivo, capace di unificare sguardo e visione, interno ed esterno, rivelazione e rilevazione dei luoghi.

Essi partono dal noto per rappresentare il possbile. Impiegano il vissuto per sviluppare il visibile. Affrontano la terra (ormai) tutta in comunicazione, per costruire nuovi ipotetici confini. Nei loro lavori fa irruzione l’idea del fantastico, almeno come lo intende Roger Caillois: e cioè come l’intervento dell’inammissibile “all’interno della inalterabile legalità quotidiana”, come violazione della stabilità di un mondo le cui leggi sono “rigorose e immutabili”.

Tutto questo però non significa la “sostituzione totale di un universo prodigioso all’universo reale”: è da intendere piuttosto come “apparizione”, come manifestazione di ciò che non può accadere e che invece succede, nel cuore di un universo perfettamente riconoscibile e dal quale si riteneva bandito per sempre il mistero. Tutto si presenta come ogni giorno: tranquillo, banale, senza nulla di insolito. Ma è una tranquillità solo apparente, perché poi tutti i luoghi e i paesaggi danno l’impressione di essere abitati da allarmanti segreti (come accade nella foresta di bambù che si agita nel video “Murmur” dell’inglese Kirk Palmer).

E’ un occhio, quello di questi artisti, gettato dentro il paesaggio nell’intento di oltrepassare la soglia di una documentazione asettica, fredda, impassibile. E’ uno sguardo che vuole dare vita a un altro sguardo successivo, per non dimenticare il respiro del mondo, per capirlo, risentirlo, avvicinarsi alla sua origine. E’ un sentimento di stupore, quasi un ritorno ad uno stato di purezza, pari a quello che sperimenta un bambino di fronte alle cose che gli sorgono davanti. Meraviglia e una sorta di potere demiurgico. E’ quanto prova, ad esempio, Enrica Borghi (vedi foto) che, utilizzando materiali di recupero, ipotizza una continua espansione e trasformazione del concetto di città o anche quanto inscena l’indiana Sheba Chhachhi con la sua incantevole installazione “Winged Pilgrims”, costituita da otto box, simili a primordiali televisori, in cui il fermo immagine di paesaggi utopici, fiabeschi è sorvolato da volatili e divinità di ogni tipo.

Un tuffo dentro la materia stessa del paesaggio, un misurarsi con il clima e gli umori del luogo è anche quello che compie l’austriaca Julie Monaco, modificando digitalmente l’immagine fino a far coincidere il proprio scenario mentale con il mondo esterno. Ma tutti i lavori, in fondo, sembrano comportare un’azione di aggiunta o di sottrazione, di modificazione e ritocco: è così per le foto del tedesco Michael Najjar (“Netropolis”): immagini di una città diffusa, di una città che prolifera su se stessa, che sfida ogni geografia, un po’ come fa “il sistema della rete”; è così per l’olandese Eelco Brand che allestisce dei videobox, dove i luoghi sono incompleti, manipolati, alterati e dove non c’è nessun indizio che li possa ricollegare ad una storia, ad uno spazio, ad un vissuto.

L’idea della mostra (a cura di Luigi Meneghelli) è che non esista più la bellezza della natura, in quanto non c’è più natura o in quanto non abbiamo più la capacità di comprenderla. L’arte può solo coglierne le trasformazioni, le metamorfosi, quelle zone di passaggio non più delimitabili, che sono diventati i veri luoghi del nostro tempo, la nostra stessa cifra epocale. E’ un po’ quello che ci mostra il video del francese Rémy Marlot: un viaggio in treno, in cui la linea dell’orizzonte oscilla al ritmo dei campi, dei boschi, delle luci che sfilano aldilà dei vetri, con il sottofondo di una fuga di J. S. Bach. Un autentico sogno (o incubo) ad occhi aperti.




Data inizio: 29-01-2009
Data fine: 21-03-2009
Orario: da Ma. a Sa. 9-13; 15.30-19.30
Luogo: Studio la Città
Indirizzo: Lungadige Galtarossa 21, 37133 verona
Link: http://www.studiolacitta.it/
Telefono: 045 597549
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