ANDREA BIANCONI 11 maggio - 20 luglio 2013
Inaugurazione 11 maggio .2013, ore 18,30 La Giarina Arte Contemporanea
“Sono uno specchio, un’eco. L’epitaffio”. Parole di Borges, per dire dell’infinito, dell’innumerabile, del tempo, dell’eternità o della ciclicità dei tempi. Ma anche, per sottolineare la convivenza e la compresenza di tutte le cose tra di loro, la loro connessione fluida, ininterrotta che si perpetua attraverso la presenza (o la sparizione) dell’autore stesso. Ebbene, tutta la ricerca degli ultimi anni di Andrea Bianconi (Arzignano, VI, 1974; vive e lavora tra Vicenza e New York) sembra concentrarsi su un’idea di perpetuazione del vissuto, del perdurare di esistenze, anche quando queste sono ridotte a semplici resti, a spoglie ingegnose o maliziose.
Anzi, l’artista vicentino pare spingere la sua operazione alle estreme conseguenze, legando (e collegando) uno sterminio di oggetti in una sorta di alluvione romantica e surreale, fino a far perdere loro ogni profilo consueto, ogni riconoscibilità, ogni corporeità. A contare è soprattutto l’utopica idea di collezionare il mondo, come fosse una casa di adorabili fantasmi, una raccolta di saperi indiziari, esposti alla fragilità, al movimento, al mutamento che è la caratteristica stessa del sapere. Niente può essere davvero ordinato o classificato: e gli strumenti che Bianconi utilizza per assemblare il suo bizzarro archivio (corde, nodi, gabbie, colle), più che unire e rinchiudere, risvegliano i “demoni dell’analogia”, attivano un infinito gioco di rimandi, collegamenti, possibilità visive. Le stesse installazioni fatte di gabbie in legno e metallo verniciate di nero non sono altro che “sculture” che disegnano lo spazio. E’ tutto un entrare e un uscire di segni, un imbrogliarsi di linee, come nelle “carceri” che si moltiplicano all’infinito di Piranesi: labirinti architettonici di scale, piani, volte che si arrampicano verso il vuoto. E’ lo stesso artista che parla di “continue sovrapposizioni, di costruzioni e decostruzioni”: “la gabbia la uso, dice, perchè la mia testa sta esplodendo di pensieri e io non riesco a contenerli tutti”.
Eppure, questi pensieri, Bianconi sembra riuscire a contenerli nell’ultimo ciclo di lavori dal titolo “Love Story”, dove ricopre sedie, biciclette, soprattutto vasi di fiori, con colate di cemento, vinavil e smalti vari. E, stendere il colore su una cosa, si sa, assume il significato di intimizzarla, di invaderne la pienezza, di condividerne l’essenza. In realtà ciò che appare vicino è anche posto sotto il segno della lontananza: noi lo riconosciamo, ma esso non si lascia mai cogliere pienamente, perchè si colloca al di là rispetto al mondo dei fenomeni: “fa parte della metafisica: ospita il vuoto, custodisce il silenzio, accoglie il nulla”, scrive Luigi Meneghelli in catalogo. Ancora una volta cioè lo sguardo di Bianconi non sosta sull’opacità delle cose e degli oggetti, ma ne moltiplica le possibilità di sorpresa, ne illumina la realtà attraverso scorci imprevisti e accostamenti singolari. Ne fa proprio “echi”, risonanze borgesiane
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