Venerdì 16 - Sabato 17 – Domenica 18 gennaio Due proiezioni al giorno ore 17.45, 21.00 Al cinema Diamante di Verona
Torna in sala, come non lo avete mai visto, solo per tre giorni, il capolavoro di Stanley Kubrick.
Il silenzio ostinato che circonda Barry Lyndon, l'ultima fatica di Stanley Kubrick, uno dei film più belli che si siano mai visti - un film che, come 2001: Odissea nello spazio, non ci stancheremo mai di vedere e di rivedere - è incomprensibile. (…)
Se l'entusiasmo, che a ogni visione di Barry Lyndon si rinnova, mi impedisce, ancora oggi dopo la terza volta, di parlarne ragionando, a maggior ragione mi rende incomprensibile l'atteggiamento quieto, sufficiente, distratto, con cui il film è stato accolto. Barry Lyndon è un film di tale splendore che dovrebbe accecare (e dunque sono assolti quelli che, chiudendo gli occhi, conservano un debole ricordo di bei quadri e la sensazione di belle musiche assordanti) oppure infiammare: ogni altra reazione tiepida rientra nel paragrafo della patologia del pubblico e va senza dubbio ascritta a quella che è stata definita la caduta della percezione sensoriale, malattia propria delle società dello spettacolo.
Il film racconta la storia di un plebeo senza qualità, testardo, violento, poco intelligente e assai rapido a colpire di spada, a barare, a ingannare, che sale rapidamente i gradini della rozza piramide sociale del suo tempo, ma che non riesce, malgrado i suoi sforzi, a diventare nobile. Anzi, questa irresistibile ambizione, questo ingenuo e ostinato desiderio, lo travolgeranno. Questa storia piuttosto comune, desunta con relativa fedeltà da un romanzo di Thackeray, permette a Kubrick di darci un quadro del Settecento alle porte della rivoluzione francese di una profondità e di una verità sconcertanti. Grazie a un talento difficilmente misurabile, e a 11 milioni di dollari, il film apre un paragrafo nuovo e luminoso in quel genere lussuoso, vuoto e sostanzialmente regressivo che siamo abituati a chiamare film in costume. (…)
Chi vede in Barry Lyndon una prodezza glaciale e inerte, un esercizio di altissima calligrafia applicata al nulla, è lo spettatore ancora convinto che Tom Jones sia un capolavoro, o magari quello che prende sul serio il formalismo informe de I duellanti di Ridley Scott. La leggendaria pignoleria di Stroheim, quella più vicina al nostro tempo di Luchino Visconti, la sapiente ricostruzione d'epoca in cui sa eccellere qualche volta Joseph Losey, hanno portato, nei casi migliori, a un realismo tanto minuzioso quanto falso, ad una menzogna e a un artificio preziosi come possono esserlo le piccole o le grandi verità "teatrali", a una qualità illusionistica che non va assolutamente confusa con il realismo documentario di Barry Lyndon, che è altrettanto convenzionale, ma diverso e opposto nei risultati. Nel film di Kubrick la meticolosa veridicità dei dettagli non suggestiona mai col fascino indiscreto e malsano dell'imbalsamazione del passato, ma costruisce, inventa, immagina (esattamente come succede con i modellini, i fondali e le prospettive di 2001) lo spazio vitale, lo spazio psicologico, lo spazio sociale, lo spazio percettivo così come si costituiscono in un dato momento della storia. (…)
Mi limiterò, se non a giustificare il mio entusiasmo, a individuare almeno la ragione principale per cui Barry Lyndon rappresenta per me, e mi auguro per molti altri, un'autentica gioia e una rivelazione. Lontano dal cinema di formule e procedimenti a cui rimanda soltanto per la sua mole produttiva, Barry Lyndon si situa in quella zona dove il cinema è invenzione, ricerca, esperimento. Ma dove tutti, coraggiosamente e confusamente, cercano, Stanley Kubrick trova. Non domanda, risponde.
Enzo Ungari, 1976