Scritto da Henrik Ibsen nel 1890, Hedda Gabler è un dramma che riassume in sé tutti gli elementi salienti della "fase sociale" del suo teatro. Al centro, una figura di donna spesso indicata come femminista "ante litteram" (con tutte le riserve del caso), e certo ancora più complessa della Nora di Casa di bambola.
Tutto attorno, una società moralmente corrotta, capace unicamente di soffocare i bisogni dell'individuo, esaltandone in maniera sconsiderata le ambizioni. E il fascino maggiore di questa pièce risiede proprio nel fatto che la protagonista non è affatto eroina emancipata, ma semmai vittima e complice di questa corruzione. Sempre a rischio di forzature e anacronismi, non si può non sottolineare il carattere "freudiano" della sua caratterizzazione psicologica. Quel che ne risulta, insomma, è un dramma amaro e spietato, che affascina proprio per la sua indagine nei recessi più bui della vita e della società (quella di fine ottocento, s'intende, ma anche quella attuale).
Dati per acquisiti questi pregi innegabili, lo spettacolo però non riesce a convicere appieno. Lo stesso testo ibseniano, in primo luogo, lascia qualche dubbio di tenuta: il personaggio di Hedda Gabler si staglia potente al centro della scena, con tutti i suoi tormenti e la sua viscerale contraddittorietà, ma attorno a lei ruota un insieme di figure prive di reale profondità, tipi umani che racchiudono in sé singoli difetti (se non proprio perversioni) dell'animo, facendosene monotoni interpreti. Al regista Antonio Calenda, poi, andrà riconosciuto il merito di aver osato non osare: nessun tentativo di attualizzare o "firmare" in qualunque modo la messa in scena, che s'impegna invece in una resa filologica dello spirito originale della pièce. Ma proprio questa scelta profondamente "ortodossa" appesantisce ulteriormente la fruizione dello spettacolo: scene, costumi e musiche aggiungono poco alle interpretazioni, mentre i dialoghi ricadono più volte in un patetismo sovrabbondante, che esalta appunto la forte tipizzazione dei personaggi. Ne risulta infine un generale appiattimento, su cui stentano a stagliarsi le battute più sibilline, quelle più gravide di implicazioni etiche.
Sul piano della recitazione, un vivo plauso va riconosciuto a Manuela Mandracchia (Hedda Gabler), capace di sostenere con costanza la complessità del suo personaggio. A rappresentare invece i difetti del resto delle interpretazioni, basti citare quella di Federica Rosellini (la signora Elvsted), capace alla prima apparizione di dare un taglio vivo e intrigante al suo personaggio, ma poi troppo insistente in una simile caratterizzazione, che alla fine perde di spessore (pur conservando una innegabile potenza scenica). Ed è questa, forse, la croce e delizia dell'intero spettacolo: riuscire a coinvolgere emotivamente ed esteticamente lo spettatore, senza però mai toccarne le corde più profonde. Un peccato, specie quando ci si accorge che le potenzialità di questo testo sono ben maggiori.
Simone Rebora