Divertirsi spensieratamente, pur percependo quell'inestirpabile vena drammatica, parlare d'innamoramenti e di fatui intrighi cortesi, di travestimenti e scambi di persona, lasciando al contempo emergere il più profondo sostrato del nostro essere umani – e attori, nella vita. È questa – e non solo – la grande arte di William Shakespeare, che emerge limpida e intrigante dalle sue commedie, e in particolare da questa Dodicesima notte portata a Verona da Carlo Cecchi, per il secondo appuntamento dell'Estate Teatrale Veronese.
Un testo all'apparenza leggero, avvincente e spensierato, eppure estremamente complesso e ricco di risvolti. La struttura portante è quella più collaudata e "facile", che tanto catturò il pubblico dell'Inghilterra Elisabettiana, quanto ancora oggi, all'alba del terzo millennio, cattura questa nostra strana comunità del "villaggio globale".
Una sequela di amori non corrisposti, uomini che sembrano donne e donne che sembrano uomini, intrighi, beffe e inganni incrociati, fino allo svolgimento finale, dove il groviglio all'improvviso si dipana. E dentro a tutto questo, trame che s'innestano in altre trame, un sapore di metateatro che pervade tutta la pièce, e che a tratti emerge limpido per rompere la membrana della finzione – o almeno per un attimo, giusto per instillare il dubbio, e poi proseguire la commedia.
La regia di Carlo Cecchi (che si appoggia sulla traduzione di Patrizia Cavalli) si pone in linea perfetta con il concept shakespeariano, e riesce a rispettarlo profondamente pur tradendolo a più riprese. Perché senza aggiungere una battuta di troppo, senza mai forzare il testo originale, lo spettacolo che debutta in prima assoluta qui a Verona, dà vita a un'ulteriore sottotrama, ironicamente omoerotica. Numerose ipotesi hanno sostenuto in passato una simile interpretazione della commedia shakespeariana, ma la regia di Cecchi non perde occasione per diffonderne i segni in ogni dove. E una simile "infedeltà", appunto, pare sorprendentemente in linea con l'originale: laddove Shakespeare riusciva a far trasparire una miriade di illuminazioni dalle pieghe di una pièce quanto mai "canonica", questa messa in scena lascia emergere ulteriori sottintesi, giocando sulle mimiche e sui movimenti degli attori.
Per tutto il resto lo spettacolo convince appieno, sotto molteplici aspetti: in primo luogo la scelta (ormai quasi controcorrente) di avvalersi di una ricca compagnia (ben 14 attori), quanto mai funzionale agli effetti comici. Ulteriore conseguenza è che i ruoli all'apparenza "marginali" balzano così in primo piano: su tutti il maggiordomo Malvolio (interpretato dallo stesso Cecchi), molto più di un semplice "bacchettone"; e poi il buffone Feste (Dario Iubatti), che s'impone infine come vera voce della ragione, dietro la maschera della follia. Ancora una volta, la scena è quanto mai essenziale, ma ravvivata da un ricco disegno luci, per dare proprio ai corpi in scena il rilievo principale. A completare il tutto, sono poi le musiche composte dal grande Nicola Piovani, suonate live ai bordi del palco: un accompagnamento costante, che dai margini sgorga fino al centro della scena, in quei momenti in cui il buffone è spronato a cantare le sue canzoni, ironiche e pungenti, tanto opportunistiche quanto intimamente corrosive. Così come spensierata e penetrante fu quella Dodicesima notte messa in scena, forse, un giorno dell'Epifania di quattro secoli fa.
Simone Rebora