24 settembre - 30 ottobre 2010
Doveva essere il secondo atto di un progetto inteso a focalizzare il divenire della pittura. Doveva essere una specie di testimonianza finalizzata a indagare il paradosso del “nuovo” all'interno di un linguaggio tradizionale. Doveva essere il tentativo di individuare l'emancipazione di un medium che non ha mai finito di rigenerarsi e riprogrammarsi.
Vertigo 2 aveva intenzione di mettere in scena tre giovani artisti (Chiara Tagliazucchi, Antonio Bardino, Paolo Picozza) che avevano affrontato il quadro non come una semplice registrazione oggettiva del mondo, ma come l'indagine del sotto (o del dentro) le cose. Purtropo nel corso della preparazione della mostra Picozza è venuto a mancare e, con lui, una pittura “visionaria” che considerava la tela un autentico campo di battaglia e che tentava letteralmente di “mettere al mondo il mondo”, ancora bollente di bitume che cuoce, ancora “sorpreso” tra segni storti, fumi e curve materiche.
Si è a lungo valutato se sospendere il progetto (o riprenderlo dopo il tempo del lutto), ma le parole dell'estrema mail inviata da Picozza (“... io intanto dipingo”) ci hanno spinto a continuare, anche perchè sembrava che l'artista romano ci dicesse: “mi sono solo spostato per non far perdere la freschezza ai miei gesti”. E così abbiamo guardato ai dipinti di Bardino e Tagliazucchi, a quei loro paesaggi di periferia o di natura stortata, evacuata con ancora maggior intensità. Ci siamo accostati alle loro immagni come a qualcosa che non si accontenta di mostrare cadute o fughe, ma come a qualcosa che pretende di essere parte integrante di queste esperienze. La loro ci è parsa una figurazione che non si rinchiude più su se stessa e sulla propria fisicità, ma che, in qualche modo, si rivela nel proprio accadere, nel proprio divenire, come se si disinteressasse della contemplazione, per prediligere i valori dell'azione.
Osservando i “Boschi di corsa” di Chiara Tagliazucchi (Pathless wood), a prima vista sembra che il punto di fuga arretri vertiginosamente, quasi a voler suscitare una veduta panoramica. Ma presto si rende evidente il fatto che ad interessare l'artista non è tanto il tentativo di mettere a fuoco il soggetto dell'immagine, quanto il disvelamento delle potenzialità latenti della pittura. Allargando la visione, lei abbatte i particolari. Il pennello non è più un elemento che aggiunge, ma che sottrae, che tira via. L'occhio si trova, di conseguenza, trascinato dentro uno spazio che si fa sempre più sterminato, risucchiato com'è dentro un vortice senza limiti, che gli fa perdere il senso delle distanze. E' costretto a piegarsi, rovesciarsi, rimbalzare, inarcarsi. Pare che Chiara faccia sue le parole di Matisse, “incomincia a tagliarti la lingua”. Tutta la sua pittura infatti è sottoposta a una folle precipitazione. L'intera natura conosce pressioni e trazioni antagonistiche, frantumazioni e squartamenti. Non è davvero facile trovare il proprio spazio nel fottuto orizzonte della sua creatività...
Con i dipinti di Antonio Bardino si ha l'impressione di entrare in minidepositi di abisso, fatti di metropoli o squarci industriali minacciati da colori notturni, intaccati da atmosfere losche, lordanti. Ma l'artista, si capisce subito, non intende affrontare questioni ecologiche o ideologiche. Uscito dagli interni asettici, dalle stanze vuote che, fino a qualche tempo fa, aveva “tirato a lucido”, come fossero luoghi clinici, ora sperimenta il fuori, con tutto il suo orizzonte sinistrato. E il fuori gli appare frammentato, spezzettato, demoltiplicato. In esso si introducono distanze abissali che giocano con disinvoltura tra la vertigine del “blow-up” (del primo piano) e l'inarrivabilità di elementi quasi fuori campo. C'è l'invasione dinamica delle superfici cosparse di piani allucinatori, di insolite giustapposizioni. E anche i colpi di pennello non hanno più nulla di ascetico, ma vanno in brandelli come una cipolla spellata. Forse il “male” (cui Bardino allude, ma di cui non parla) viene dall'interno, rode a partire da dentro.
È così, con Vertigo 2. Se con la prima edizione si erano investigati i rapporti con i media, scovando sottili relazioni con foto, video e cinema, stavolta ci si rivolge al paradosso assoluto della pittura, alla sua maledizione e alla sua grandezza: quella di dare a vedere cioè quanto non è solo nell'ordine della vista, ma anche nell'ordine del pensiero. La formazione delle immagini viene incessantemente decostruita, perchè si possa cogliere l'arbitrarietà della “convenzione rappresentativa” e farne risultare l'immancabile alterità e alterazione: in altre parole, perchè si venga a capo della tela, ma non nel senso di intenderne i “messaggi”, bensì di smascherarne il volto (il sistema di funzionamento). (mostra a cura di Luigi Meneghelli)
Galleria Atlantica
via Piave, 35 - Altavilla Vicentina (VI)
martedì - venerdì 16.00 - 21.00, lunedi' chiuso
Ingresso libero