Lamonaca_-_Municio22 settembre - 3 novembre 2012

Ce lo ha insegnato Italo Calvino: “Per vedere una città non basta tenere gli occhi aperti”. Bisogna sapere “scartare”, “semplificare”, “collegare”. Tre operazioni che ci permettono di vedere oltre i luoghi comuni, le immagini precostituite, le idee ricevute. “Scartare” significa liberare l'ovvio e

ricercare l'angolo visuale con cui la cosa sempre vista non è mai stata realmente vista. “Semplificare” vuol dire ridurre all'essenziale “l'enorme numero di elementi che la città mette sotto gli occhi di chi la guarda”. “Collegare” è la ricerca delle corrispondenze occultate dietro il velo delle funzioni, dei tempi, delle storie. Tutto questo ci porta a capire che la città non ha una sola faccia, ma che ci sono innumerevoli città che abitano la medesima città.

 

E' muovendo da questi concetti che Giancarlo Lamonaca realizza le sue videoinstallazioni: non semplici riproduzioni del reale, non pure testimonianze topologiche, ma immagini capaci di perturbare lo spazio conosciuto o, quantomeno, di alterarne e moltiplicarne la misura.

Il soggetto preso in considerazione è il paese di Chiusa, in Alto Adige, costretto tra acque e rocce, con addosso ancora il fascino oscuro del Medioevo, quando era terra di confine e di dogane, di monasteri e santuari. L'intervento di Lamonaca conduce ad una sorta di smarrimento del tempo e del luogo, facendo diventare incerto il limite tra presente e passato, tra dentro e fuori, tra sopra e sotto. E, se anche a prima vista, le immagini non presentano nulla di arbitrario, di deformato, di estraneo, a ben guardare ogni dato oggettivo insinua il sospetto di custodire in sè qualcosa di potenziale, congetturale, plurimo. Nell'opera Senza titolo (autorità spirituale e potere temporale) sopra al fregio posto all'entrata del vecchio Municipio è applicata la sagoma di un vescovo (copia di una scultura conservata nel Museo Civico); sul pannello Senza titolo (matrice) affisso sulla facciata della scuola media si scorge l'interno di un'aula che si dilata, si scompone e ricompone, come in un quadro cubista. Lamonaca ci sfida a cogliere i cambiamenti, i molteplici punti di vista, le infinite possibilità di visione. Così, la città non è più solo rifugio e ricovero, ma anche luogo di relazioni, apparato di comunicazioni. In qualche modo ritorna viva, mobile: e, questo, anche attraverso l'utilizzo di procedimenti (di ingrandimenti e di estreme riduzioni), in cui la foto smette di essere il riquadro tradizionale e si fa gioco di specchi, graffa, camminamento. Al punto che l'osservatore non è più chiamato a contemplare l'opera, ma a perdersi in essa.

 

E anche le fotografie raccolte nelle stanze del Museo Civico danno l'idea di immagini senza identità, quasi liquide o in dissolvenza. Vedute delle vie di Chiusa, della Salita Sabiona, del traffico autostradale, ottenute con il metodo della sovrimpressione. Più scatti, più durate, più tempi, raccolti in uno stesso tempo. Ma senza avere un più di visione, un suo approfondimento o un suo arricchimento, quanto invece una sua perdita, un suo sfaldamento. E' come se niente fosse mai fissato e mai “visto” veramente, ma tutto fosse un infinito “perdersi e ritrovarsi, andare, vagabondare, ricercare” (come direbbe Wim Wenders).

In fondo, quello che si propone l'intera operazione (inserita nel progetto di “Open City Museum”): una diffusione delle opere nei vari spazi, per facilitare l'interazione con abitanti e turisti, con in più visite guidate in varie lingue, incontri, dibattiti. Il tutto per capire non com'è costruita la città, ma come la si può abitare, immaginare, desiderare. Mostra a cura di Martha Jiménez Rosano e Luigi Meneghelli.

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