Che cosa rappresenta lo studio per un artista? Un rifugio, un laboratorio, un luogo del pensare e del fare? E come provare a descrivere uno spazio che registra le tracce della creazione, il faticoso processo che porta dalla potenza all'atto, dalla mano all'opera? È un compito, almeno a prima vista, impossibile (...)
Segue il primo servizio con l'intervista ad Andrea Facco e le foto del suo studio.
"Le stanze in cui nascono le opere dell’arte sono da sempre considerate una residenza del mistero. Luogo di rivelazioni e disvelamenti, lo studio diventa il testimone muto d’apprendistati estetici e tramandi culturali. In esso si ha sensazione di respirare in un territorio sospeso nel tempo e in un'atmosfera di ordine al limite del caos. Vi aleggia una tensione mista a calma e uno strano clima d’ozio febbrile.
Nell’atelier, che è per eccellenza il luogo intimo della creatività, si vivono momenti differenti dettati dalle necessità lavorative: è pure luogo d’incontro, di scambio, di passaggio, dove gli ospiti possono entrare nel cuore stesso della ricerca.
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Naturalmente la scelta dello spazio va di pari passo con le esigenze del proprio lavoro, lo spazio deve dare la possibilità di affrontare qualsiasi nuovo progetto. Così, nel mio caso, amando anche dipingere quadri di grandi dimensioni ho sempre cercato ampi spazi, come magazzini e capannoni che in me hanno esercitato ed esercitano un grande fascino. Ma subisco anche un altro tipo di seduzione, e cioè quando lo spazio è riempito dagli oggetti del mestiere e la ricerca è frenetica. In questo senso ho realizzato diverse serie di lavori che hanno proprio l’atelier come motivo principale, anche se non ne costituiscono la riproduzione diretta. Traggono origine da un’esperienza vissuta a Bologna, presso il Museo Morandi, dov’era stato ricostruito lo studio del “pittore solitario”, dopo la volontaria distruzione dell'appartamento originale. Qui ho avuto modo di ammirare soprattutto i soggetti delle sue nature morte, quelle modeste bottiglie e quelle scatole, per lo più da lui stesso ridipinte e ricoperte di polvere. Come pittore, ho iniziato così a riflettere sullo studio come specchio della produzione dell’artista. Però non mi sono soffermato solo su Morandi, ma ho affrontato il tema dello studio da altre prospettive, occupandomi anche di Picasso o di Pollock. Oltre al confronto diretto con i grandi maestri, sto portando avanti dal 1999 una serie di lavori sul tema dello studio, dal titolo “Resti di Pittura”, utilizzando residui cromatici e materiali della pittura che in genere vengono gettati, come le strisce di carta adesiva, precedentemente utilizzate per delimitare nettamente le immagini.
Le tracce cromatiche di Pollock (come in fondo anche le mie) sono documenti di vita vissuta, alla pari degli oggetti immoti, sommersi dalla polvere dello studio in penombra di Morandi: ci parlano dello sforzo per fermare il tempo e investire le cose d’eternità.
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Sono circa nove anni che ho allestito lo studio nella città di Verona, in un ex laboratorio artigianale. Un unico ambiente dal sapore romantico con enormi finestre, una luce che cambia continuamente e tanti spazi per pensare e lavorare.
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Conservo bei ricordi di ogni spazio dove ho potuto lavorare e dove energie e amicizie sono state capaci di consolidarsi, come quello condiviso con Marco Di Giovanni a Solarolo, in un capannone industriale nuovo in mezzo alla campagna romagnola. Ma gli anni che rievoco con più nostalgia sono quelli vissuti con Andrea Galvani nel “Magazzino”, un piccolo capannone artigianale nel cuore di Bologna. Erano i primi anni novanta e Bologna era un punto d’incontro per moltissimi artisti visivi, musicisti, intellettuali, vagabondi e poeti. Era il periodo d’esordio di molti centri sociali in cui si respirava un’energia collettiva di profondo rinnovamento. All’epoca io e Andrea dipingevamo nella “Stanzetta”, un garage a Verona a casa di amici. L’arte era già diventata una esigenza fisiologica, ma vissuta tra le mura di una città troppo chiusa e piccola. Decidemmo perciò di muoverci insieme, uniti dagli stessi ideali e da una grande amicizia. Il passaggio da Verona a Bologna è stato pressoché naturale. All'inizio abbiamo aderito ad esperienze collettive all'interno di una sorta di factory in un capannone sotterraneo di 200 mq. Facevamo parte del “gruppo Zero”, un circolo di studenti dell’Accademia e del DAMS, che a quell’epoca rappresentava il respiro più anarchico della città. Poi abbiamo iniziato a cercare un posto tutto nostro, ma sempre volendo mantenere un’idea di collaborazione attiva, nel rispetto delle personali e autonome ricerche. Al nostro arrivo lo studio non era altro che un spazio vuoto delimitato da quattro muri: vuoto, ma pieno di tracce vissute. L’abbiamo trasformato in uno studio simile a un loft d’oltre oceano, con una grande zona aperta e un ampio soppalco. Il "Magazzino” ha sempre rappresentato un luogo d’incontro e contaminazione, un crocevia, un punto di scambio con altri artisti che si trovavano a passare per lavoro o curiosità. In dodici anni con noi hanno collaborato una quarantina tra artisti e musicisti che arrivavano a Bologna da altre città italiane e dall’estero. Ricordo le improvvisazioni jazz dal vivo, mentre si lavorava e si progettava. Notti di dibattiti, incontri con galleristi, amicizie nate intorno ad un set fotografico. Tra gli ultimi artisti entrati in collaborazione con lo studio c’è stato Davide Tranchina, un fotografo che insegna a Brera e che lavora sul concetto di "distanza".
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Verona è una città d’arte che fonde in sè epoche passate, stili architettonici, monumenti, storie e leggende che attirano migliaia di turisti da tutto il mondo. Ma arroccata dietro al suo passato artistico non sempre si è dimostrata pronta ad aprirsi all'innovazione e alla sperimentazione. Verona è anche una città di artisti. Alcuni di loro però hanno preferito recarsi altrove, dove l’attenzione alla creatività è più forte. La scelta dello studio a Verona non è stata dettata da una strategia particolare, è semplicemente la mia città natale (e forse ideale). Sicuramente non è l’ombelico del mondo, ma si vive bene, si hanno le comodità della grande città senza viverne gli affanni. E’ provinciale certo, ma è anche un punto di scambio, un crocevia di interessi. Critici, curatori, collezionisti passano da qui e si fermano facilmente. Allo stesso tempo ci si può spostare con comodità verso altri centri culturali, altri luoghi di formazione, cosa fondamentale per un artista. Ho sempre frequentato l’ambiente culturale veronese, le gallerie ed i musei, e devo dire che in questi ultimi anni ho visto crescere un’attenzione particolare verso l'arte contemporanea. Oltre ai musei e alle gallerie private che da sempre sono riuscite a mantenere vivo l'interesse dell’arte, ho visto nascere ArtVerona (alle cui edizioni ho partecipato), ma anche iniziative culturali fuori fiera e nuove associazioni culturali che stanno lavorando bene sul territorio.
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Miei riferimenti sono la Fondazione Biagiotti progetto Arte di Firenze, la galleria Il Chiostro di Saronno, la Otto Gallery di Bologna ed Alessandro Casciaro Art Gallery di Bolzano. Dal 2007 ho iniziato a lavorare anche con la galleria d’arte contemporanea Box-Art di Verona, con una mostra personale dal titolo “Waiting for Beijing”, mostra nata dopo una residenza a Pechino. Oggi la nostra collaborazione continua attivamente portando avanti diversi progetti, che mi auguro presto sia possibile presentare alla città."
intervista raccolta dalla redazione
Andrea Facco è nato a Verona nel 1973. Il suo studio è il riadattamento di un ex laboratorio artigianale poco lontano da Corso Milano. Vasto e luminoso, è una specie di luogo che contiene più luoghi: l'ambito dello studio, la zona dell'archivio, lo spazio del vivere. Ma soprattutto l'angolo del lavoro. Lavoro che si esprime apparentemente attraverso una “narrazione per immagini”. Dunque, un lavoro di pittore? Forse, ma di un pittore che analizza la pittura, che studia il visibile, che riflette sulla comunicazione. Furtivamente, maliziosamente. Ci mette con sfrontatezza di fronte al micro e al macro, al vero e al falso. In un inesausto tentativo di sfidare e mettere in crisi le nostre abitudini percettive.
foto: Antonella Anti
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