Un testo di grande spessore etico, sferzante nella sua semplicità, capace di indagare a fondo tutte le contraddizioni della natura umana, specie quando posta di fronte alle prove più difficili, che non concedono compromessi. Lo porta in scena Luca Zingaretti, nella doppia veste di attore e regista: ma le due ore di spettacolo approdate questa settimana al Teatro Nuovo di Verona, stridono un poco di fronte alla grande altezza della loro sceneggiatura.
Il testo, intitolato originalmente Taking Sides, fu firmato nel 1995 da Ronald Harwood, scrittore ebreo nato in Sudafrica e con passaporto inglese. Come il titolo suggerisce, la questione qui posta in discussione è la necessità (o il problema) di “schierarsi”, di “prendere parte” di fronte ai problemi etici più incalzanti. Ma la traduzione dall’inglese di Masolino d’Amico, per quanto efficace ed equilibrata, scopre forse fin troppo le carte, scegliendo un titolo, La torre d’avorio, che rivela da subito il cardine attorno a cui ruotano le sue argomentazioni.
Siamo a Berlino, subito dopo il termine della Seconda Guerra Mondiale, durante i processi ai sostenitori del regime nazista. Sullo sfondo degli orrori di Norimberga, si distingue il caso di Wilhem Furtwangler, il più grande direttore d’orchestra tedesco, sottoposto a un’indagine preliminare per valutarne l’affinità al regime. Furtwangler (personaggio realmente esistito, e si suppone non privo di macchie) si mantenne estraneo alle pratiche e ideologie del nazismo, ma al contempo divenne incarnazione della sua politica culturale. La sua resistenza passiva, la sua scelta di non lasciare la patria che amava per preservarne la grande tradizione musicale (anche in un periodo così buio), non impedì ai gerarchi nazisti di strumentalizzarne la figura, fino a renderlo rappresentante internazionale della cultura tedesca “non degenerata”. A indagare su di lui, è l’ufficiale dell’esercito americano Steve Arnold (interpretato da Zingaretti), incolto, diffidente, e in larga parte prevenuto nei confronti dell’orgoglioso artista, idealmente isolato (appunto) nella sua torre d’avorio. Ma ciò che il testo di Harwood sottolinea – e qui il titolo scelto da d’Amico è fuorviante –, non è tanto l’eterna questione dell’art pour l’art, dell’artista come essere a-morale, quanto lo scontro tra due sistemi di conoscenza (e di vita) entrambi sbagliati, per quanto umanamente elevati. Il primo, è appunto quello del musicista, l’artista per antonomasia più distaccato da ogni dimensione politica, alla ricerca di un linguaggio universale che riunisca l’umanità intera. Il secondo, è quello dell’inquirente, materialista e scettico nei confronti della natura umana, che però finisce col rinchiudersi anch’egli nella sua “torre d’avorio”, popolata dagli incubi dei forni crematori, e da un bisogno impellente di giustizia, che sfocia infine in atteggiamenti persecutori.
L’estrema complessità etica di questa pièce, si scontra con una messa in scena fin troppo “di maniera”, che sommerge lo spessore umano di molti dialoghi con una recitazione in larga parte forzata e priva di naturalezza. La regia calca troppo la mano sugli sketch ironici, sui meccanismi collaudati, e isola eccessivamente la nobile figura di Furtwangler (interpretato da un magistrale Massimo De Francovich). Più altalenante è l’interpretazione di Zingaretti, a tratti convincente, a tratti davvero troppo smaccata. Senza infamia né lode il resto del cast, spesso ridotto a un teatrino muto (ma qui, forse, il difetto sta nella natura della pièce). Allestimento scabro e realista, come pure le luci; musiche “in scena”, suonate su un giradischi posto sullo sfondo, ma anche capaci (con l’unico scatto registico di vera distinzione) di dare il “la” alla chiusura e apertura del sipario. Uno spettacolo, insomma, che resta consigliabile, pur con tutti i suoi difetti: serbatoio di emozioni e di occasioni per riflettere, sulla storia, sull’arte e la politica, ma anche, e soprattutto, su noi stessi.
Simone Rebora
La torre d'avorio
di Ronald Harwood
traduzione di Masolino d’Amico
con Luca Zingaretti, Massimo De Francovich, Caterina Gramaglia, Peppino Mazzotta, Gianluigi Fogacci, Elena Arvigo
scene di Andrè Benaim
costumi di Chiara Ferrantini
luci di Pasquale Mari
regia di Luca Zingaretti
produzione Zotococo s.r.l.
al Teatro Nuovo di Verona fino al 19 gennaio