Per Marino Battistella, commercialista, l’arte contemporanea è l’hobby al quale dedica il tempo libero dagli impegni di lavoro. Si tratta di un hobby condiviso dalla sua bella famiglia (la moglie Rosetta e i due figli Giorgia e Marco) anche se non con lo stesso coinvolgimento. Recentemente, durante qualche inaugurazione in città, lo abbiamo incontrato, premuroso neo-nonno, accompagnato dalla figlia e dalla nipotina. In genere, nel presentare i vari collezionisti andiamo alla ricerca della molla che ne ha scatenato la “passione”. Per parlare con Battistella siamo stati a trovarlo nella sua abitazione di Monteforte. Appena entrati lo sguardo si è posato su un’opera ma, poi, si è spostato freneticamente dietro una sequenza di dipinti e sculture… Le opere esposte sono molte, ben armonizzate negli ambienti. Basta girarsi intorno e si riconoscono lavori di Mondino, Gilardi ma anche di Beecroft, Tessarollo, Riello.
Un artista italiano che Battistella conosce personalmente e a cui tiene molto è Patrick Tuttofuoco, di cui possiede l’opera esposta all’ultima Biennale di Venezia. Tiene molto anche ai libri e ai lavori che ha collezionato e dove è la musica (o meglio il suono) ad essere il vero soggetto che entra nell’arte visiva: si tratta di opere di artisti come Duchamp, Russolo, Beuys, John Cage, Stockausen, Bussotti, Chiari.
Ci conosciamo da tanti anni, ma non ti ho mai chiesto cosa ti ha spinto a diventare collezionista?
L’arte è sempre stata di casa. Mio padre, Leone Battistella (1916-1986) si era diplomato all’Accademia Cignaroli di Verona ed era amico del pittore Moreno Zoppi (1918-1994) e dello scultore Gino Bogoni (1921-1990), anche loro di Monteforte. Mentre i due amici hanno fatto gli artisti per tutta la vita, mio padre che ha dipinto in diverse chiese della zona (era ritrattista) ad un certo punto, messo alle strette, ha scelto di portare avanti l’attività commerciale di famiglia. Comunque alle prime Biennali di Venezia sono andato con papà.
Un destino segnato dunque: un’educazione all’arte vissuta in presa diretta.
Direi di sì: è stato papà a insegnarmi fin da subito ad avere una visione diversa delle cose. Ma anche il paese dove sono nato e dove abito tutt’ora, Monteforte d’Alpone, ha avuto il suo peso. Di Monteforte e quasi mia coetanea è la scultrice Patrizia Guerresi. Il paese era ed è piccolo, ci si frequentava un po’ tutti. Fui invitato alle sue prime mostre. (Ricordiamo che Patrizia è uno dei pochissimi artisti veronesi invitati alla Biennale di Venezia, a cui ha partecipa in due edizioni, nell’82, a soli 23 anni e nell’86 – ndr)
Quindi anche dopo la morte di tuo padre continui a frequentare gallerie e artisti e a collezionare?
E’ stato un crescendo. Per un periodo c’è stato a Cellore d’Illasi il centro culturale Domus Jani (di cui Sarenco era l’anima culturale) che ha portato in provincia artisti e mercanti internazionali. Poi mi sono avvicinato al mondo vitalistico di Francesco Conz e soprattutto agli artisti del movimento Fluxus, che ho avuto anche l’opportunità di conoscere direttamente. Poi con il passare del tempo ho iniziato a sentirli vecchi, ripetitivi, rivoluzionari fuori tempo. E ha cominciato ad interessarmi quello che accadeva in tempo reale, l’arte che nasceva, rispecchiando un po’ lo spirito dell’epoca. E questo a partire dagli anni ’90.
Tra queste specificità, quali fanno parte del tuo modo di essere collezionista: la passione, l’investimento, il piacere della scommessa?
La scommessa dell’acquisto mi interessa relativamente. Preferisco la scommessa a livello culturale, quella che mi porta a capire se sono in sintonia con ciò che sta accadendo.
Che caratteristiche dovrebbe avere un collezionista per essere davvero un “buon collezionista”: viaggiare molto, tenersi aggiornato, confrontarsi in continuazione?
Prima di tutto viaggiare, andare a vedere: non è sufficiente sfogliare le riviste. E se gli eventi non accadono in Italia, devi avere la forza di andare fuori. Altrimenti rischi di arrivare tardi, a cose già accadute. Oggi, per tenermi informato, oltre a comprare libri (Art Now della Taschen e Vitamin D di Phaidon, ndr) e riviste d’arte, ogni anno vado a vedere la Fiera di Basilea, a Londra (in particolare in occasione di Freeze, la nuova fiera cool). Mi reco spesso a visitare mostre anche a Parigi, ma negli ultimi anni sono attratto dal clima culturale di Berlino, dove vado almeno un paio di volte l’anno. Mi piace ciò che è in fermento: quest’anno a Basilea più che la grande, paludata fiera, mi hanno incuriosito alcune mostre tenute in spazi collaterali: quella di Daniel Richter al Kunstmuseum e quella di Tacita Dean e Francis Alys alla Schaulager.
Come avvengono le tue scelte? Segui un tuo gusto personale, ti relazioni alle tendenze di moda, ti fai consigliare?
E’ un po’ un mix. Mi attirano gli artisti che hanno una freschezza innata, che sono in perenne sperimentazione, indipendentemente dal puro dato anagrafico. E poi guardo alle Gallerie che li hanno presentati: è sempre una spia del valore di un’artista. Louise Lawler non è più giovanissima ma si rinnova in continuazione, la stessa Marlene Dumas sembra sempre una ragazzina: ed entrambe sono proposte dagli spazi internazionali più importanti.
C’è una caratteristica che ti calamita quando ti accosti a un’opera?
Francio Alys, per esempio, fa dei video che stanno tra cronaca e ironia, tra documentazione e meditazione. Forse mi piace quest’arte che scava in profondità, senza per forza voler essere predicatoria.
Qual è il rapporto che tieni con gli artisti e le gallerie con cui tratti?
Di solito buoni. Cerco sempre che ci siano contatti non casuali ma che durino nel tempo. Per esempio con Guenzani in Italia e con le Gallerie di Berlino (Max Hetzler), soprattutto per quel clima di perenne rinnovamento che sanno suscitare. Ma anche con Alison Jacques e Sady Cole a Londra. Ci si sente, ci si vede, ci si scambiano pareri.
E nel territorio chi frequenti?
L’amica Cristina della galleria La Giarina, Conz, Luciano lora (Loft Art).
In che termini sono cambiate le modalità di collezionare rispetto a qualche anno fa?
Oggi non ci si affeziona più di un quadro facendone il centro del proprio mondo, ma ci si affeziona del lavoro di un artista. E lo si segue nel suo percorso. E’ un modo di entrare più a fondo nel suo linguaggio, anche attraverso la conoscenza della sua persona.
E’ ancora un’interesse individuale, quasi segreto, quello del collezionista?
Si, è quasi sempre individuale, ma bisognerebbe che diventasse un’operazione collettiva. Non trovo giusto che un’opera venga acquistata e appesa nel “sacrario” personale. Credo che sarebbe giusto che potessero vederla più persone, superando il piacere solipsistico del possesso e diventando un fatto culturale.
Quindi il collezionista che diventa un tramite tra lo studio dell’artista e la fruizione dell’oper? Una sorta di guida o di suggeritore verso i nuovi modi del vedere?
Ma potrebbe trattarsi anche di un gruppo di amici, di amici collezionisti che mettono assieme la loro ricerca, fino a trasformarla in una questione pubblica.
Da una foto che ho visto sembra che abbiate fondato una spiritosa “squadra di collezionisti”, con tanto di portiere e centravanti di sfondamento. Fate un autentico gioco di squadra?
Due di questi stanno già costruendo degli spazi praticabili a tutti. Tra di noi poi ci invitiamo spesso e parliamo, guardiamo, discutiamo, ci aggiorniamo reciprocamente.
La foto di cui parli è un piccolo lavoro di Luciano Lora (Loft Arte) My collectors Team del 2005, esposto nella sua galleria di Valdagno (VI) durante la mostra Ambaradan (tra arte e non arte). Nella foto, accovacciato, proprio in centro, ci sono io circondato da collezionisti vicentini (si riconoscono Giancarlo Bonollo, Lorenzo Gaspari, Zorzetto Clemente, Danieli).
Quanta influenza ha sul tuo lavoro, la tua attività di collezionista?
E’ fondamentale. L’arte mi aiuta moltissimo. Devo essere pronto a cogliere qualsiasi innovazione, a vedere sempre qualcosa di diverso rispetto a quello che vedo tutti i giorni. L’arte ti porta ad essere più disponibile anche in situazioni lavorative inattese: a capire e ad affrontare meglio gli imprevisti, a non fossilizzarsi mai.
In provincia ti senti fuori dal mondo e in qualche modo appartato?
Sì e anche no. Sì, perché vivendo in provincia bene o male te lo senti addosso il peso della distanza. Ma, muovendoti spesso, gusti tutto il sapore della libertà (della novità). E poi oggi con internet non sei più fuori dal mondo.
A Verona c’è qualche potenzialità che merita un po’ d’attenzione?
Soprattutto quei pochi che sanno uscire dal luogo di appartenenza.
A cosa saresti disposto a rinunciare per un lavoro che ti brucia l’anima?
M’è successo di dire: “per quell’opera lì darei via tutta la mia collezione”. Come mi è capitato di pensare: “perché non fare un mutuo come si fa per la casa?”. In fondo un’opera è anche un’abitazione.
Cosa consiglieresti ad un giovane che vuol iniziare a collezionare o entrare nella vostra squadra di “segugi dell’arte”?
Non c’è bisogno di molto: occorre la voglia di muoversi, di informarsi, di vedere e di fare delle scelte che non siano già usurate. Bisogna essere curiosi, attenti, onnivori.
Luigi MeneghelliL'intervista è stata pubblicata sulla rivista VERONAlive (n. 36: estate 2006).