Rudy_Cremonini_installazione_M.Ebraico_vrl_27 gennaio 2012

Il 27 gennaio è una data ufficiale istituita nel 2000 per ricordare la persecuzione dei cittadini ebrei ad opera del regime nazista,nell'anniversario del giorno in cui avvenne, nel 1945, l’abbattimento dei cancelli del lager nazista di Auschwitz.

Ogni anno si tengono incontri, convegni, manifestazioni, concerti, mostre, si pubblicano libri per non dimenticare quel tempo oscuro della nostra storia. Cogliamo l'occasione per segnalare la mostra che si tiene al Museo Ebraico di Bologna (22 gennaio – 26 febbraio 2012) di Rudy Cremonini dal titolo "La vita la vediamo a memoria".

Una stanza angusta che sembra avvolta da una caligine di tenebra: poco più di un antro illuminato da una luce fioca  e con i nomi dei deportati stampato sul pavimento. L'obiettivo è quello di porci immediatamente nel cuore del problema, di farci sentire tutta l'inquietudine che questo “fossile di spazio” custodisce, un po' come Ground Zero: una sorta di vuoto al centro della città, nel suo cuore, un pezzo mancante nel corpo della sua storia. Del resto, la Shoah non è solo una vicenda di crimini: è un evento metafisico, un male assoluto, un inferno nel quale non si finisce mai di morire. E, infatti, mentre nelle immagini tradizionali dell'inferno, i dannati mantengono la loro identità, nell'inferno dei lager era proprio l'identità a venire annientata, l'unicità della persona a venire eliminata. Ebbene, l'intervento che l'artista bolognese Rudy Cremonini realizza all'interno della stanza “aperta sul nulla” non vuole essere il tentativo di dare un volto alla rovina, di spettacolarizzare l'orrore, quanto invece quello di mostrare la “riduzione degli uomini ad esseri assolutamente superflui” (H. Arendt). Egli impiega delle vecchie valigie di cartone su cui dipinge una galleria di ritratti sfuggenti, smarriti, quasi consumati dalla stessa pittura che li elabora. Sono sguardi senza individualità, senza riconoscibilità: larve d'essere, che traducono l'irruzione dell'inaudito nella loro vita. Cremonini evita il rischio di cadere nella retorica o nella ritualità del ricordo: ad importargli è che il senso di cancellazione rimanga vivo, che la memoria conservi la sua ferita, che la “liturgia dell'orrore” parli al futuro. (mostra a cura di Luigi Meneghelli)

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