Le opere di David Lindberg rappresentano un’interessante risposta ai quesiti della pittura non figurativa del nostro tempo. È difficile classificare le sue opere, in cui il colore è velato da una compatta trasparenza. Per realizzarle l’artista quarantacinquenne americano, che da anni vive in Olanda, utilizza materiali duttili, che rivisita: gommapiuma, resina epossidica, fibra di vetro, colori ad olio, pigmenti. Questi materiali gli consentono di lavorare direttamente con le mani e con arnesi non professionali, strumenti occasionali: piccoli
1 marzo - 18 aprile 2009
Il punto di vista di Federico Maddalozzo - come scrive il curatore della mostra Di Gigiotto Del Vecchio - tratta di un sistema di regole di codificazione delle immagini abbastanza preciso, il suo è un archivio visivo, un punto di visione caratterizzato dall’utilizzo di un metodo in cui è la razionalizzazione, la traduzione in struttura, l’elemento che compone ogni atto creativo. Ci troviamo di fronte ad un percorso in cui la realtà viene mediata da una sorta di filtro che sintetizza e rimanda ad una condizione sospesa, quasi da immagine virtuale in cui, però, la volontà di raffreddamento sfugge al controllo anche dell’artista.
Alla sua seconda personale da Artericambi Maddalozzi presenta grandi installazioni e lavori a parete, di grandi dimensioni dove l’opera è involucro ed impedimento per lo sguardo, opportunità (per l’errore) di un eventuale sviluppo poetico. Per l'artista l’errore rappresenta infatti un momento di rilancio (il difetto di impaginazione di un libro, le strutture in legno che delimitano un piccolo cantiere edile, l’impalcatura che sorregge un grande pannello pubblicitario) e attraverso la decontestualizzazione conferisce loro un valore puramente estetico e scultoreo.
L'artista analizza la realtà che concede spazio all’emozione e che l’asseconda, persegue nel suo intento catalogativo giocando più sulla visione che sull’atto di conservazione. L'intento è
“Paesaggio è una parola sporca. Paesaggio è là dove finisce la natura”. Così diceva il grande fotografo americano Ansel Adams. Parole, le sue, che vogliono segnalare la trasformazione da un modo di vedere ad un altro, dall’utopia di un mondo puro, naturale alla necessità di costruire nuove storie su un paesaggio ormai totalmente sondato, conosciuto, consumato.
E gli artisti in mostra vanno proprio in cerca di nuove narrazioni e racconti, perché il problema non è più quello di riprodurre o di investigare gli estremi confini della nostra esperienza, ma quello più radicale di una sorta di loro rifondazione, della formazione di un nuovo alfabeto visivo, capace di unificare sguardo e visione, interno ed esterno, rivelazione e rilevazione dei luoghi.
Essi partono dal noto per rappresentare il possbile. Impiegano il vissuto per sviluppare il visibile. Affrontano la terra (ormai) tutta in comunicazione, per costruire nuovi ipotetici confini. Nei loro lavori fa irruzione l’idea del fantastico, almeno come lo intende Roger Caillois: e cioè come l’intervento dell’inammissibile “all’interno della inalterabile legalità quotidiana”, come violazione della stabilità di un mondo le cui leggi sono “rigorose e immutabili”.
Tutto questo però non significa la “sostituzione totale di un universo prodigioso all’universo reale”: è da intendere piuttosto come “apparizione”, come manifestazione di